top of page

E'' risaputo che tutte le persone sane producono continuamente cellule tumorali per tutto il corso della vita. Si sviluppano dall'interno dell'organismo e sono chiamate autologhe. Le cellule maligne sono generate da una serie di fattori come la mutazione, i virus e dall'esposizione ad agenti cancerogeni come fumo, radiazioni, pesticidi, ecc...
L'utilizzo della terapia con le cellule dendritiche su pazienti terminali ha portato la remissione completa e duratura su alcuni e una remissione parziale su altri con stabilizzazione della malattia e il godimento di una qualità di vita molto buona. Si tratta di un risultato importante.

I ricercatori hanno dimostrato che possono essere introdotte nel corpo, sotto forma di vaccino, cellule dendritiche fresche e vitali. Se il cancro è presente, le cellule dendritiche iniettate nell'organismo avvisano il sistema immunitario della presenza della malattiae si riattiva la capacità del sistema immunitario di identificare il cancro e combatterlo.
Queste cellule sono ottenute con una coltura dai globuli bianchi dello stesso paziente (quindi "autologhe"). Inizialmente, dopo un semplice prelievo, il sangue viene inviato a un laboratorio di alta tecnologia medica in cui biologi cellulari e tecnici appositamente formati estraggono dal sangue alcuni globuli bianchi (monociti), che vengono poi coltivati e in sette giorni trasformati in una nuova generazione di cellule dendritiche. Queste'ultime vengono poi reintrodotte nel corpo del paziente attraverso semplici iniezioni sottocutanee.
I risultati sono sorprendenti da qualsiasi punto di vista, poiché amplificano la risposta immunitaria, allungano la sopravvivenza del paziente, e migliorano la sua qualità di vita. Si tratta di una terapia elaborata e molto complessa ma molto efficace nella lotta contro i tumori. E soprattutto si tratta di una terapia attuabile, con la collaborazione di validi laboratori di biologia molecolare. Per il paziente, in realtà, la terapia è semplice: un semplice prelievo del sangue e una successiva iniezione sottocutanea. In aggiunta e se possibile, utilizzando le cellule tumorali rimosse durante l'intervento chirurgico, è possibile insegnare alle nuove cellule dendritiche a riconoscere il nemico da combattere e, a questo punto, le cellule iniettate saranno "istruite" e in grado di attaccare quel particolare tipo di tumore maligno. 
Si tratta di una scoperta che non ha precedenti, uno studio che cambierà la vita di tante persone e che farà fare passi da gigante alla medicina e alla ricerca scientifica.I ricercatori che sono giunti a tale scoperta sono i ricercator iBeutler (statunitense),  Hoffman (lussemburghese) e  Steinman (canadese), insigniti del premio Nobel per la medicina nel 2011.
Grazie a questi tre immunologi si potranno attuare nuove tipologie di vaccini, che non hanno più solamente la funzione di prevenire una malattia, ma anche di curarla. Ironia della sorte, Steinman è morto il 30 settembre scorso proprio per un carcinoma al pancreas: il ricercatore è riuscito a ritardare l’avanzamento della malattia, anche se per un breve periodo, grazie all’immunoterapia basata sulle cellule dendritiche, che lui stesso ha studiato per anni. 
Per saperne di più sui risultati delle sperimentazioni effettuate in caso di tumore ovarico (stessa famiglia del tumore al seno), si invita alla lettura del seguente articolo:
http://www.pharmastar.it/?cat=22&id=6425

Tra i centri in Italia in cui è possibile praticare la terapia con le cellule dendritiche si cita l'
ISTITUTO SCIENTIFICO ROMAGNOLO PER LO STUDIO E LA CURA DEI TUMORI
(Fonte: curadelcancro.it)

Un vaccino sperimentale ha dato ottimi risultati contro il tumore al seno. Un gruppo di scienziati americani lo ha testato su topi da laboratorio, ai quali la sostanza ha impedito di sviluppare la neoplasia.
La scoperta è apparsa su Nature Medicine, sulle cui pagine i ricercatori hanno affermato di voler partire con la sperimentazione umana, anche se sono consapevoli che per arrivare a un vaccino ci vorrà ancora del tempo.
Il coordinatore della ricerca, Vincent Tuohy del Cleveland Clinic Learner Research Institute, spiega: “noi pensiamo che questo vaccino sarà usato un giorno per prevenire il cancro al seno nelle donne adulte nello stesso modo con cui i vaccini oggi prevengono molte malattie dell'infanzia. Se funziona negli esseri umani come ha funzionato nei topi, sarà un progresso monumentale. Potremmo eliminare il tumore al seno”.
Durante la sperimentazione, un gruppo di un gruppo di topi modificati geneticamente per sviluppare il cancro al seno è stato diviso in due; alcuni sono stati vaccinati con una sostanza che conteneva a-lactalbumina e gli altri con un vaccino che non conteneva l'antigene. Fra i topi a cui era stata somministrata l'a-lactabulmina, nessuno ha sviluppato il cancro, mentre tutti gli altri si sono ammalati. Sulla base di tali risultati, i ricercatori hanno subito avviato le procedure per una sperimentazione su umani.
Un'altra ricerca ha raggiunto risultati interessanti per altri versi e fatto una scoperta che “potrebbe salvare migliaia di vite ogni anno”. È ciò che affermano i ricercatori che hanno svelato i meccanismi alla base della resistenza ai farmaci nel caso di tumore al seno.
La scoperta si deve a un'équipe del Dana Farber Institute di Boston, negli Stati Uniti, i cui ricercatori, anche in questo caso, hanno pubblicato i risultati dello studio sulla rivista Nature Medicine. 
Individuando i geni responsabili della farmaco-resistenza, si può comprendere in anticipo la reale efficacia o meno della chemioterapia e intervenire di conseguenza con maggior tempestività nella terapia, modificandola secondo le esigenze che si presentano di volta in volta.
La ricerca americana ha preso in esame una serie di farmaci che combattono il cancro al seno e che prendono il nome di antracicline, sostanze adiuvanti per la terapia che si rende necessaria a seguito dell'intervento chirurgico, allo scopo di scongiurare la ricomparsa della neoplasia.
Farmaci come la doxurubicina, la daunorubicina e l'epirubicina sono molto utilizzati nel trattamento dei tumori al seno. I ricercatori statunitensi hanno analizzato campioni di tumore prelevati da 85 donne, cercando le caratteristiche utili a spiegare la differenza di efficacia del trattamento a seconda dei soggetti.
Gli scienziati si sono resi conto che in un caso su cinque, due geni presentavano un'iperattività che consentiva al cancro di opporre resistenza alla chemioterapia. Le donne a cui erano riconducibili tali campioni erano le stesse sulle quali il trattamento si era rivelato inefficace, con la conseguente comparsa di recidive e nuove metastasi.
Sull'evoluzione della ricerca e la messa a punto di un test da utilizzare per riuscire a predire l'efficacia del trattamento farmacologico, il coordinatore della ricerca, Andrew Richardson, si è mostrato abbastanza fiducioso: “questi risultati suggeriscono che i tumori resistenti alle antracicline possono ancora essere sensibili ad altri agenti. Per questo un test su questi geni sarebbe molto utile per definire la terapia più efficace per queste pazienti. Un kit per questo tipo di test genetici non dovrebbe essere difficile da sviluppare e potrebbe essere sperimentato sulle pazienti in meno di un anno”. 


(Fonte: Italiasalute.i

L'artemisinina è il principio attivo contenuto nell'Artemisia Annua, pianta utilizzata dalla medicina ufficiale cinese per curare la febbre malarica e i problemi gastro-intestinali.
Oggi la ricerca si concentra sulle sue potenzialità anticancerogene.
All'università di Washington una ricerca ha dimostrato come l'artemisinina provochi la morte delle cellule cancerogene del tumore al seno. E' provato che è altamente tossica per le cellule tumorali ma ha un impatto marginale su quelle normali del seno.
Questo composto reagisce con l'alta concentrazione di ferro presente nelle cellule malate di alcuni tipi di tumore.
In proposito ci sono studi dal 2001, ma siamo ancora lontani dal poter parlare di una cura contro il cancro.
Al momento ci sono sperimentazioni in vitro, ma perché si possa usare il principio attivo alla base dell'Artemisia Annuasi dovrà passare alle procedure su animali e poi alle sperimentazioni cliniche.

​


(Fonte:greenme.it, , panorama.it)

L a chemo-proteomica, o proteomica chimica è una nuova tecnica per la ricerca farmacologica, che sembra essere uno degli strumenti più efficaci per comprendere l'azione molecolare dei farmaci in fase di studio.
E' nata dall'unione di diverse tecniche sperimentali e offre la possibilità di testare contemporaneamente i legami di una molecola con tutte le proteine cellulari, in condizioni molto simili a quelle fisiologiche.
In questo modo è possibile scoprire qualsiasi proteina che sia bersaglio del farmaco, non solo quelle oggetto di ipotesi ma anche quelle inaspettate.

La chemo-proteomica è stata utilizzata da una giovane ricercatrice italiana, Tiziana Bonaldi, che dal 2008 è rientrata in Italia e lavora presso lo IEO, per testare il farmaco E-3810, già noto per essere un inibitore multiplo dei recettori Tirosina-chinasi, Vegfrs, Fgfrs e Pdgfrs.
Inoltre, E-3810 ha mostrato un'ottima reattività su alcuni tipi di tumori solidi, come il cancro al seno, in test clinici di fase II.

Gli studi condotti dalla Bonaldi hanno confermato l'azione del farmaco contro i bersagli già noti, dimostrando cosi l’attendibilità del metodo chemo-proteomica, ma hanno permesso di individuare nuove potenzialità per il farmaco stesso.
Tra i nuovi bersagli ad esempio il Ddr2 (discoidin-domain receptor 2), un recettore coinvolto nella proliferazione cellulare, in particolare in caso di tumore al polmone.

(Fonti: molecularlab.it, , galileonet.it/)

Mammella, prostata, fegato, polmone: diversi tipi di tumori potrebbero in futuro essere trattati grazie a una nuova terapia in grado di colpire un gene responsabile della crescita di diversi tipi di neoplasie, indipendentemente dall’organo o dal tessuto in cui hanno avuto origine. La notizia arriva dal New York Times secondo cui, nonostante ci siano ancora “grandi incertezze”, questo farmaco genetico del futuro potrebbe rappresentare la svolta per il trattamento di diversi tipi di tumori, da quelli più comuni a quelli più rari, per un totale della metà circa di quelli attualmente conosciuti. La chiave, si legge nell’articolo, è nella proteina P53, coinvolta nella nascita e nella crescita di molti tumori, contro la quale la comunità scientifica cerca di combattere da ormai oltre 20 anni. A cercare di sconfiggerla, ancora oggi, sono in prima linea alcune tra le più importanti aziende farmaceutiche che mirano a trovare un farmaco in grado di ripristinare il meccanismo di "morte programmata" di quelle cellule che, irrimediabilmente danneggiate, sono tra le cause della comparsa di diversi tumori.

Le cellule sane sono programmate per autodistruggersi se nei processi di replicazione sviluppano danni o difetti al loro Dna troppo gravi per essere riparati. In questo meccanismo di “morte programmata” svolge un ruolo importante proprio la proteina P53, che partecipa all’attivazione del processo di autodistruzione delle cellule divenute “difettose”. Le cellule tumorali, però, sono in grado di disabilitare P53 - sia direttamente, con una mutazione, che indirettamente, ovvero collegandola a un’altra proteina che ne blocca l’attività – consentendo alle cellule danneggiate di sopravvivere e replicarsi, favorendo così lo sviluppo delle neoplasie. L’obiettivo dei ricercatori, quindi, è trovare un farmaco in grado di ripristinare il funzionamento di P53 in modo da consentirle di funzionare come “spazzina” delle cellule difettose, preservando quindi l’organismo dallo sviluppo di molte neoplasie.

Per ora la maggior parte degli studi è stata condotta in laboratorio, e mancano ancora le ricerche sugli uomini. Ma gli studi non si fermano. Per la messa a punto di farmaci anticancro più efficaci di quelli attuali, spiega Otis Brawley Webb, direttore medico e scientifico dell’American Cancer Society, “questo è un assaggio dei prossimi sviluppi dei farmaci anticancro. Mi aspetto che, in futuro, l’organo da cui il cancro origina risulti sempre meno importante nella scelta delle terapie, e che il target molecolare acquisti invece maggior importanza”. Per favorire la ricerca in una sorta di “unione fa la forza”, spiega Brawley, potrebbe inoltre essere decisivo passare dalle attuali raccolte di fondi per singoli tumori a una raccolta fondi collettiva, per consentire di analizzare in contemporanea i meccanismi alla base dello sviluppo di diversi tipi di neoplasie.

(Fonte: salute24.ilsole24ore.com)

bottom of page